Il coach invisibile: come l’AI sta trasformando la formazione

Quali possibilità e contraddizioni emergono quando un coach invisibile entra nella formazione aziendale, trasformando l’apprendimento in un’esperienza continua, personale e (quasi) umana?
 

22 Maggio 2025 6 min.

Viviamo un momento in cui l’AI non è più solo un tema per tecnici e innovatori. È entrata nel nostro lessico quotidiano, nel nostro modo di lavorare e sempre più spesso… nel nostro modo di imparare.

Le organizzazioni si trovano di fronte a una trasformazione silenziosa, ma profonda.
La tecnologia sta cambiando le regole del gioco non solo nei mercati, ma anche nella cultura interna delle aziende. In questo scenario, una delle aree più interessate dalla rivoluzione è la formazione.

E non si tratta semplicemente di digitalizzare corsi o caricare contenuti su una piattaforma. Si tratta di ripensare completamente cosa significa “formare” una persona. E di farlo con l’aiuto di un nuovo alleato: l’AI.

Una nuova grammatica dell’apprendimento

Negli ultimi anni, abbiamo assistito a un cambiamento radicale nel modo in cui le persone apprendono sul lavoro.

La formazione non è più un evento calendarizzato, con inizio e fine, ma un flusso continuo che si intreccia con le attività quotidiane. Non si impara solo in aula, ma nel momento stesso in cui si lavora. Nel momento in cui serve.

Con l’arrivo dell’AI generativa e dei Large Language Model, il concetto stesso di coaching è stato riscritto.

Non parliamo più di programmi, ma di conversazioni.
Non di percorsi predefiniti, ma di interazioni dinamiche.

L’AI diventa un allenatore silenzioso: ascolta, osserva, restituisce.
Simula scenari, propone alternative, suggerisce. E lo fa con costanza, pazienza, oggettività.

Cos’è davvero l’AI coaching?

Immaginate un sistema che segue i vostri progressi, riconosce i vostri punti deboli, vi propone esercizi mirati, analizza le vostre risposte e vi offre un feedback istantaneo, specifico, imparziale.

Questo è l’AI coaching.

Un sistema che non giudica. Che non dimentica. Che non si distrae.

Nella sua forma più evoluta, si integra nei flussi di lavoro, si adatta allo stile del singolo, sfrutta i dati per suggerire comportamenti più efficaci e supportare l’apprendimento “on the job”.

Il risultato?
Un coaching continuo, personalizzato e scalabile. Un nuovo standard di formazione.

I vantaggi per le organizzazioni

L’integrazione dell’AI nel coaching sta generando risultati tangibili.

L’AI rende possibile ciò che prima era impensabile: allenare costantemente, in modo adattivo, ogni collaboratore dell’organizzazione, con feedback su misura e tracciamento continuo dei progressi.

E non solo. Libera il tempo dei manager, automatizzando la parte più tecnica del coaching, lasciando loro spazio per ciò che conta davvero: sviluppare persone.

Il caso delle vendite: l’habitat ideale

Un ambito in cui l’AI coaching ha trovato terreno fertile è il mondo delle vendite.

Qui, l’apprendimento non può essere solo teorico. Servono esercitazioni, simulazioni, role-play.
E serve farlo spesso, senza consumare tempo umano ogni volta.

L’AI entra in scena simulando clienti reali, replicando obiezioni, variando tono e personalità, restituendo feedback sul linguaggio usato, il ritmo della conversazione, la capacità di ascolto.

Collega i momenti di training ai risultati di vendita reali, integrandosi con i CRM.
E soprattutto, permette ai commerciali di sbagliare. E di imparare da ogni errore, senza rischi.

Casi reali: da Google a Zoom

Google Cloud ha certificato oltre 15.000 addetti commerciali in un solo mese, grazie a un programma di AI coaching basato su LLM (Large Language Models). Il risultato? 92% di soddisfazione tra i partecipanti. Un successo tale che l’iniziativa è stata estesa a nuovi ambiti, dall’onboarding alle simulazioni manageriali.

Anche Target, una delle principali catene retail americane, ha intrapreso una strada simile, ma con una direzione ancora più quotidiana. Ha sviluppato Store Companion il cui compito è supportare i dipendenti nei negozi: rispondere a domande operative, orientare i nuovi assunti nei primi giorni, offrire micro-coaching contestuale durante le attività di routine.

A tutti gli effetti un collega virtuale sempre disponibile, che permette di sbagliare, imparare e migliorare direttamente sul campo, senza dover fermare tutto per una formazione formale.

Il risultato è un coaching continuo, diffuso, scalabile. Ma soprattutto, misurabile.

Ma anche un coach ha dei limiti

Ogni tecnologia ha i suoi superpoteri. E i suoi punti ciechi. Anche quella più avanzata, più precisa, più brillante.

L’AI può analizzare parole e toni, contare le pause, riconoscere le esitazioni. Ma non conosce il contesto in cui nascono. Non sa se dietro un silenzio si nasconde una pausa strategica o un momento di esitazione profonda.

Può simulare empatia, ma non viverla. Può offrire supporto, ma non sa cosa significa davvero riceverlo. E se può suggerire cosa dire, non sempre sa quando è il momento di tacere.

Il paradosso è evidente: stiamo usando la macchina per migliorare le nostre competenze più umane. E per quanto sia efficace, da sola non basta.

Ci sono elementi che non si possono inferire da un dataset: una reazione istintiva, un’occhiata di scoraggiamento, una frase lasciata a metà. L’AI può rilevarli, ma non interpretarli pienamente. Perché non li ha mai vissuti.

Un coach umano, invece, può. Perché ha avuto dubbi, ha commesso errori, ha conosciuto la frustrazione, l’incertezza, la fatica. E proprio per questo, sa riconoscerli negli altri. Sa ascoltare anche ciò che non viene detto.

Nel coaching, l’empatia non è solo una competenza. È un’esperienza condivisa.

Umano + macchina: il vero approccio ibrido

Proprio per questo, il futuro della formazione non sarà né completamente automatizzato né totalmente umano. Sarà ibrido.

L’AI potrà raccogliere dati, analizzare comportamenti, suggerire micro-azioni di miglioramento. Ma sarà il coach umano a dare significato a quei dati, a trasformare le informazioni in sviluppo reale.

L’AI sarà l’allenatore sempre presente, paziente e imparziale. Il manager resterà il mentore empatico, capace di leggere tra le righe, di cogliere il momento giusto, di ispirare.

Solo unendo questi due elementi – dati e intuizione, simulazione e relazione – il coaching potrà diventare davvero trasformativo.

Conclusione: non solo tecnologia, ma cultura

Il coach invisibile è arrivato. È preciso, instancabile, sempre disponibile. E per molti versi, sta già rivoluzionando il modo in cui impariamo. Ma se c’è una cosa che questa trasformazione ci insegna, è che l’innovazione non basta mai da sola.

Affidarsi all’AI senza una cultura che ne guidi l’utilizzo significa rischiare di creare soluzioni brillanti che nessuno si sente davvero di usare. Oppure, peggio ancora, strumenti potenti che finiscono per replicare in modo più efficiente i limiti di sempre.

È per questo che il vero vantaggio competitivo non sarà avere il miglior algoritmo.
Sarà avere persone pronte ad accoglierlo, guidarlo, metterlo al servizio di qualcosa di più grande: una cultura dell’apprendimento che non sia solo smart, ma anche sensata. Inclusiva. Umana.

Le aziende che sapranno tenere insieme dati e visione, tecnologia e sensibilità, performance e significato, saranno quelle che impareranno più in fretta. E chi impara più in fretta, oggi, gioca in vantaggio.

La domanda allora non è più se l’AI cambierà la formazione.
La domanda è: saremo pronti a farlo insieme a lei?

Autore

Rocco Fontana

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