Upskilling e reskilling.
Buzzword o futuro?

Il mondo sperimenta cambiamenti epocali da sempre. Non è una novità. La storia ci insegna che lavori dati per assodati e sicuri sono scomparsi, in taluni casi addirittura dimenticati. Un tempo le città pullulavano di ombrellai, lampionari, carrozzieri (nel senso di riparatori di carrozze per cavalli), tagliatori di ghiaccio. Tutti mestieri scomparsi.

2 Febbraio 2021 7 min.

Stiamo cambiando

Oggi sono altri lavori a essere messi alla prova dalla storia. Lo sanno bene gli operatori di call center, o gli sportellisti delle banche. Ciò che stupisce è che tali cambiamenti possano ancora stupire[1]. Forse è dovuto alla nostra carenza di memoria storica.

Insomma, niente di nuovo sotto al sole. Però non del tutto. Se la dinamica profonda è tutto sommato la stessa, basata sull’introduzione di nuove tecnologie e metodi che rimettono in discussione intere filiere produttive (ma anche finanziarie), sono invece cambiate alcune caratteristiche strutturali. Per esempio è cambiata e si è affinata la nostra coscienza del cambiamento in atto, insieme alla velocità esponenziale con cui esso sta avvenendo.

Realtà economiche, istituzionali e di ricerca sottolineano con forza la necessità non solo di accettare il cambiamento, ma di assumere un comportamento attivo (ma soprattutto preventivo) nei confronti dello stesso[2].

I trend[3] che portano all’obsolescenza delle competenze sono alle porte per sempre più categorie professionali, ma soprattutto per aziende intere[4]. Basti pensare alle compagnie assicurative, o alle banche, che hanno visto erodere fette di mercato da parte di Startup sempre più aggressive, che introducono nuovi paradigmi e puntano sulla disintermediazione digitale delle attività. L’accelerazione che le nuove tecnologie stanno imprimendo costringe le persone a chiedersi non tanto che cosa faranno i propri figli, ma piuttosto sé stesse, magari nel giro di cinque anni[5]. E questo per chi lavora per le grandi aziende, ma anche per chi lavora nelle PMI e nel manufacturing.

Pre-venire e pre-vedere

Ciò che è certo è che vi sia in atto uno smottamento incrementale delle competenze richieste dal mercato. Competenze che ormai non vengono più richieste solo ai giovani che entrano nel mondo del lavoro, ma anche a coloro che, in teoria, hanno consolidato la propria posizione e dovrebbero poter vivere di rendita fino all’età della pensione. Il rischio di trovarsi fuori dal mercato del lavoro è una realtà concreta per tutti. Giocare d’anticipo è la strategia giusta.  Come?

L’upskilling e il reskilling sono fra gli approcci più interessanti in questa direzione. Approcci che si basano su due pilastri fondamentali, di cui il secondo è il corollario del primo:

  • La Pre-Visione;
  • La Visione.

La Pre-visione perché l’upskilling e il reskilling sono due strategie volte a fornire alle persone e alle aziende gli strumenti che il mercato, in continua evoluzione, non sta chiedendo, ma chiederà. La Visione perché richiede a persone e aziende di chiedersi continuamente dove andrà il mondo del lavoro, costringendole (in bene) a tenersi informate, a non mollare il colpo, a non adagiarsi su effimere posizioni di rendita.

L’upskilling e il reskilling

Ma cosa sono esattamente l’upskilling e il reskilling? Per reskilling si intende “l’apprendimento di nuove competenze in modo da poter svolgere un lavoro diverso”. In generale, il reskilling viene effettuato da organizzazioni in cui i dipendenti vedono mutare radicalmente la loro mansione e le competenze necessarie per espletarla. Un esempio relativamente famoso di reskilling è quello avvenuto nella NASA americana degli anni ’60. Fin dagli anni ’50, interi stanzoni di professioniste facevano letteralmente i calcoli a mano per definire le traiettorie dei missili, nella corsa allo spazio che avrebbe portato il primo uomo sulla luna. L’arrivo dei primi calcolatori IBM rese obsoleto quel lavoro. Ma era necessario che qualcuno configurasse i grandiosi, ma complicati, calcolatori. Ed ecco che alcune donne di genio riuscirono a reinventarsi un nuovo lavoro, saltando sul treno dell’innovazione che passava e diventando le prime esperte IT della storia (come raccontato nel bel film: “Il diritto di contare”).

D’altro canto, se si parla invece di upskilling, lo si può definire come “l’apprendimento di nuove abilità relative al proprio ambito di lavoro”. In altre parole, l’upskilling implica specificamente l’upgrade di competenze che un dipendente già padroneggia e che già fanno parte del suo profilo professionale. I corsi di aggiornamento, se fatti con cura, sono un tipico esempio di upskilling.

In sintesi il reskilling afferisce alla dimensione “orizzontale” delle competenze personali, l’upskilling a quella “verticale”.

L’upskilling e il reskilling analizzate attraverso la lente del modello “T Shaped”

Il concetto di abilità a “T”, è una metafora utilizzata nei contesti formativi per descrivere le capacità delle persone nella forza lavoro. La barra verticale sulla lettera T rappresenta la profondità delle abilità e competenze in un singolo campo (per esempio l’analisi dei dati per un data analyst), mentre la barra orizzontale è la capacità di utilizzare molteplici competenze trasversali, magari non approfondite, ma sufficienti per non rischiare di essere troppo specializzati. In altre parole la componente orizzontale afferisce alla sfera della flessibilità, mentre la componente verticale a quella della solidità.

Un esempio di modello a T può essere quello di un professionista con particolari e consolidate competenze in ambito design, che però possiede inoltre discrete capacità nel lavorare col codice, e nella gestione di progetti complessi, che gli permettono di portare la sua capacità verticale in contesti diversi e in modo adattabile, rendendolo quindi più competitivo e appetibile in virtù del maggiore valore aggiunto portato.

Di fatto l’upskilling punta ad allungare la componente verticale della T, mentre il reskilling punta ad abbandonare una verticalità della T per crearne un’altra.

Per un professionista (e per un’azienda) è fondamentale strutturare sistematicamente e contemporaneamente buone pratiche di upskilling e reskilling.

L’inadeguatezza dei modelli basati sui singoli

Date le premesse è necessario porre uno spunto di riflessione. Accertato che il mondo stia cambiando; e di come stia cambiando in modo esponenziale. Compreso come l’upskilling e il reskilling siano strategie volte ad adattare le competenze delle aziende e delle persone a tali cambiamenti, bisogna anche riflettere su come implementarle.

Molte aziende provano già oggi a fare iniziative interne di upskilling e reskilling. Ma lo fanno spesso in modo inadeguato.

Quest’ultima affermazione necessita di un doveroso chiarimento. Anche in passato il modello di crescita all’interno delle aziende si basava sul modello a T: le nuove generazioni arrivavano, occupavano la base del modello a T e si inserivano nella scia verticale dei propri responsabili, puntando progressivamente a crescere nello stesso solco, fino ad arrivare a prenderne la posizione. Tale modello ha funzionato, perché si basava su un gentlemen agreement basato su una gavetta iniziale a cui sarebbe però corrisposto un premio finale. Lavoro per il capo, così da poter diventare lui quando se ne sarà andato. Un sistema criticabile, ma non disprezzabile.

Tale sistema oggi non regge più, per molte ragioni. Il percorso di crescita dei professionisti è costretto a evolvere troppo velocemente per seguire le orme di chi li ha preceduti. Inoltre è proprio l’ascensore sociale, soprattutto in Italia, che è bloccato. Il giovane di oggi fa sempre più fatica a inserirsi nella scia di colui che lo guida, in primis perché quella scia scomparirà spazzata via dai nuovi trend; e in secondo luogo perché i più senior faticano a lasciare spazio di crescita ai nuovi arrivati, dato che il contesto macroeconomico spinge spesso le aziende a bloccare il turnover.

Si può quindi sbagliare nel fare upskilling. L’upskilling puro e semplice di una persona senior rischia di avere un effetto benefico, ma fugace, perché tenderà a disperdersi con la fuoriuscita del professionista dal contesto lavorativo al momento della pensione. Non ci sarà un profilo junior che ne prenderà il posto quando questi se ne andrà.

 

Si può sbagliare anche nel fare reskilling. Il reskilling si basa sul concetto di costruzione di una nuova verticalità a fianco di quella già posseduta, nel modello di competenze personali. Ma come è appena stato detto è anche un approccio rischioso, dispendioso e che soprattutto prende tempo (che non sempre c’è). La persona formata si troverebbe nella non agevole situazione di dover cominciare a imparare nuove competenze da capo (che non è necessariamente male), ma con un disallineamento con la propria seniority difficile da colmare in tempi ragionevoli, prima che l’obsolescenza si ripresenti.

Ed è qui che bisogna fare un lavoro sistematico e strutturato nella messa a terra delle iniziative di upskilling e reskilling.

La necessità di un approccio integrato all’upskilling e al reskilling

È necessario ragionare sul concetto di responsabilità. Responsabilità innanzitutto di chi le aziende le guida. Responsabilità di chi comprende che agire giusto per agire non è la strada corretta. Bisogna agire per affrontare i problemi e raggiungere lo scopo formativo che ci si è prefissati, per aiutare l’azienda e le persone che ne fanno parte.

Questa responsabilità si declina nei confronti di due categorie di lavoratori: coloro che stanno entrando nel mondo del lavoro e hanno bisogno di costruire da zero le proprie competenze; e coloro che ci sono da molto, ma che probabilmente se le devono reinventare.

Per questo è fondamentale puntare sulla corretta integrazione dei due approcci.

Può essere utile pensare “diagonalmente”, individuando la competenza da sviluppare nella sua interezza all’interno dell’azienda, attribuendo parte di essa alle figure più junior e parte alle figure più senior. Si tratta di mettere in atto delle azioni di reskilling mirate alle persone con esperienza e al contempo puntare su iniziative di upskilling mirate sulla medesima competenza su profili più junior. Lo scopo è di mettere in sinergia i punti di forza della figura più junior e della figura più senior, formandoli con approcci diversi ma con una strategia comune su una singola competenza.

Il modello “diagonale”, parte subito dal reskilling di competenze medie e poi alte su un nuovo tema per le figure con esperienza, lasciando alle figure più junior l’upskilling di quelle di base. Tale modello, integrato, di upskilling e reskilling sulla base dell’esperienza, permette di costruire in modo incrementale, veloce ed efficace l’offerta di competenze dei professionisti allineate con la richiesta del mercato del lavoro, rendendo le aziende per cui lavorano sempre più competitive nei confronti di quelle che invece praticano l’upskilling e il reskilling tradizionali (per non parlare di quelle che non mettono a terra alcuna di tali pratiche).

Il vantaggio per le aziende si esplicita in molteplici fattori:

  • Percorsi di crescita più fluidi e veloci per le nuove generazioni e conseguente aumento dell’attrattività aziendale;
  • Percorsi di crescita più in linea con la propria seniority da parte della popolazione aziendale, con conseguente aumento della retention;
  • Aumento del set di competenze distintive offerte dalle persone e dalle aziende rispetto a modelli di sviluppo basati sul singolo individuo, con conseguente aumento della competitività.

In conclusione

Il modello diagonale per il reskilling e l’upskilling è una pratica che, nel contesto dei trend economici sempre più esponenziali, può portare aziende anche particolarmente “ingessate” a iniziare un percorso di rilancio di competitività importante. Trattandosi però di un cambiamento nelle modalità di formazione delle persone, delle modalità di costruzione delle istituzioni aziendali e dell’attitudine che devono avere le persone che le compongono, non può che essere implementato all’interno di un articolato piano di Change.

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